L'8 marzo e il senso di festeggiarlo ancora
Tra storia, femminismo e società moderna, per una parità che non c'è
L’8 marzo, Festa delle Donne. Oppure no? C’è chi lo celebra con la solennità di una giornata di lotta e chi lo ignora con fastidio, chi lo vive come un’occasione per una cena tra amiche e chi si chiede se abbia ancora senso. Nel 2025, in un’Italia dove le battaglie per i diritti delle donne si combattono ancora tra congedi parentali inesistenti e divari salariali mai colmati, la domanda sorge spontanea: ma le donne festeggiano ancora l’8 marzo? E soprattutto, che significa oggi questa ricorrenza?
La nascita dell’8 marzo e il suo significato
L’8 marzo non è sempre stato un momento di festeggiamenti. La sua origine è legata a una lotta per i diritti delle donne che affonda le radici in eventi drammatici e significativi. Sebbene per molti anni si sia diffusa la convinzione che l’8 marzo fosse stato scelto per commemorare un incendio avvenuto nel 1908 a Chicago, la realtà storica è ben diversa. L’incendio avvenne il 25 marzo 1911 a New York, presso la Triangle Waist Company, una fabbrica tessile che impiegava circa 500 lavoratori, principalmente giovani donne immigrate, molte delle quali italiane ed ebree provenienti dall’Europa orientale. In quella tragedia, 146 persone persero la vita, 129 delle quali erano giovani donne, di cui 62 morirono lanciandosi dalle finestre del palazzo in fiamme. L’incendio fu il risultato di gravi negligenze, poiché i proprietari della fabbrica avevano l’abitudine di chiudere a chiave le porte per evitare che le lavoratrici si allontanassero dal posto di lavoro, impedendo loro di fuggire quando il fuoco divampò.
La tragedia suscitò indignazione, ma purtroppo il processo che seguì assolse i proprietari e l’assicurazione pagò loro 60mila dollari come risarcimento per i danni. Le famiglie delle vittime ricevettero un risarcimento irrisorio di 75 dollari. Questo evento divenne simbolo di una lotta per le condizioni di lavoro e i diritti delle donne, con una forte denuncia contro la logica del profitto che sacrificava vite umane. L’8 marzo si consolidò come simbolo della lotta per la parità di genere, e nel 1977, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite proclamò la Giornata delle Nazioni Unite per i diritti delle donne e per la pace internazionale, suggerendo che ogni paese designasse una data annuale. Poiché molte nazioni avevano già adottato l’8 marzo, questo divenne ufficialmente il giorno scelto per celebrare le conquiste e riflettere sulle sfide ancora da affrontare. In Italia, la Giornata internazionale della donna fu celebrata per la prima volta nel 1922 per iniziativa del Partito Comunista d’Italia, il 12 marzo. Solo successivamente, con il passare degli anni e l’emergere di movimenti femministi, la data dell’8 marzo divenne un simbolo più ampio della lotta per la parità, un’occasione di riflessione sulle discriminazioni di genere, sulle violenze subite e sulle conquiste ottenute.
Oggi si festeggia ancora?
Oggi, con il mondo che cambia velocemente e le nuove generazioni che sembrano sempre meno interessate a etichette e rivendicazioni tradizionali, il senso dell’8 marzo è in continua trasformazione. Non si tratta più soltanto di diritti negati, ma di una complessa riflessione su identità di genere, ruoli sociali e percezione del femminismo.
Un tempo si scendeva in piazza, si sfidava il patriarcato, si rivendicavano spazi negati. Oggi, invece, per molte donne l’8 marzo è diventato una ricorrenza a metà tra il commerciale e il conviviale: ristoranti pieni di gruppi di amiche, bouquet di mimose sui banchi dei mercati, promozioni sui prodotti “al femminile”. C’è chi dice che questo svilisce il significato originario della giornata, trasformandola in un San Valentino della parità di genere.
“Io non l’ho mai festeggiato. Mi sembra una presa in giro”, racconta Sara, 44 anni, impiegata. “Abbiamo ancora il gender pay gap, il doppio carico di lavoro, la violenza domestica e dovremmo essere felici per una cena con spogliarellista annesso? No, grazie”.
D’altra parte, c’è chi vede in queste nuove forme di celebrazione un’evoluzione naturale. “L’8 marzo rappresenta tanti traguardi. Non è solo protesta, ma anche celebrazione della nostra forza. Andrebbe festeggiata di più”, dice Eleonora, 24 anni, studentessa.
Le nuove generazioni e il femminismo
E i giovani cosa ne pensano? I ragazzi e le ragazze nati negli anni 2000 crescono in un mondo che riconosce loro diritti che le generazioni precedenti hanno dovuto conquistare. Il femminismo non è più (solo) una lotta per ottenere qualcosa, ma un concetto fluido, che si scontra con nuove esigenze e nuove sensibilità.
La sociologa Consuelo Corradi -docente di sociologia all’Università Lumsa, ricercatrice sul biocapitale femminile e sulla violenza contro le donne- sottolinea come, in effetti, sia cambiato il “come” si festeggia l’8 marzo, ma non tanto il “perché”. Questo giorno, infatti, non ha mai smesso di essere una data simbolica di lotta per la parità, che riflette la condizione di una società che, pur avendo raggiunto traguardi significativi, continua a lottare per la completa parità.
Le giovani donne, in particolare, sono quelle che vivono con maggiore naturalezza il concetto di parità, perché cresciute in una società che ormai riconosce loro diritti fondamentali. “Per loro, i diritti conquistati sono un dato di fatto, non il frutto di lotte decennali. Questo le porta a vedere il femminismo in modo più sfumato, a volte anche con diffidenza”. Per loro, infatti, l’8 marzo è una giornata di riflessione e celebrazione, più che di rivendicazione. Non si tratta più di urlare per avere quello che è giusto, ma di riconoscere i progressi fatti e le sfide ancora aperte.
E poi ci sono loro: i giovani uomini. A differenza di quanto ci si potrebbe aspettare, non sono solo le donne a rimanere intrappolate tra aspettative e realtà, ma anche i giovani uomini si trovano in una sorta di limbo emotivo e sociale. Corradi racconta di ragazzi che si sentono “marginalizzati” o “sovraccarichi” da un mondo che sembra rimproverarli per il passato patriarcale, ma che allo stesso tempo li mette a confronto con un modello di uomo più sensibile e consapevole delle disuguaglianze. Tra questi giovani si nascondono anche quelli che, magari, si sono formati nel clima politico degli ultimi anni, alimentato da una retorica che ha esaltato il ritorno alla mascolinità tradizionale, quelli che “hanno votato Trump”. Forse sono proprio questi ragazzi quelli che, come segnala Consuelo Corradi, si ritrovano “arrabbiati” e confusi, alla ricerca di un’identità che li spinga a sentirsi parte di una discussione che, invece, sembra relegarli in una posizione scomoda.
Le sfide di oggi, tra femminismo performativo e politiche di parità
Se c’è una cosa che mette tutti d’accordo, è che la parità è ancora lontana. I numeri del World Economic Forum parlano chiaro: serviranno 286 anni per eliminare le leggi discriminatorie, 140 anni per una equa distribuzione dei ruoli di potere e 40 anni per raggiungere una reale parità nei parlamenti nazionali.
Nel frattempo, le donne italiane continuano a combattere battaglie quotidiane. Troppe ancora lasciano il lavoro dopo la maternità, il gender pay gap persiste e la violenza di genere rimane un problema endemico. “La prevenzione è fondamentale“, spiega Corradi. “Abbiamo parlato tanto di violenza sulle donne, ma quello che serve davvero sono servizi concreti: centri antiviolenza, educazione nelle scuole, politiche di prevenzione che intervengano prima che sia troppo tardi”.
E poi c’è il problema culturale. “L’Italia è un Paese ‘bambino repellente’“, denuncia la sociologa. “Non esiste una narrazione positiva sulla maternità, solo difficoltà e sacrifici. Questo scoraggia le giovani donne, che si trovano a dover scegliere tra carriera e famiglia. E la società non fa nulla per aiutarle”.
Cosa dovremmo fare il 9 marzo?
La verità è che l’8 marzo non è una data da archiviare, ma un’occasione per fare il punto su quanto è stato fatto e su quanto resta da fare. Può essere una giornata di festa, di riflessione, di protesta o anche di semplice consapevolezza.
Non deve essere per forza un giorno di lotta rabbiosa, né una festa svuotata di senso. Può essere il simbolo di un percorso che non finisce il 9 marzo, ma che continua ogni giorno: un punto di partenza per una riflessione condivisa, non solo da parte delle donne, ma anche da parte degli uomini, affinché si comprenda che la lotta per la parità riguarda tutti. Il cambiamento è, infatti, un processo che coinvolge tutti: le leggi, la cultura, ma anche i cuori e le menti delle persone. Perché, come ci ricorda il tema dell’International Women’s Day 2025 – “Rights. Equality. Empowerment” – il cambiamento è urgente e deve partire da un’azione che possa veramente fare la differenza. E su questo, forse, possiamo essere tutti d’accordo.
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