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Preoccupante calo nascite in Asia, natalità in picchiata

neonatologia

In pochi anni di passa dalla preoccupazione per le bocche da sfamare a quella per la manodopera che manca

In molti Paesi asiatici le paure si sono ribaltate nel giro di pochi anni: se prima a spaventare era l’eccessiva natalità, oggi è l’inverno demografico a cambiare ogni aspetto della società e della politica di questi Stati. Insomma, se prima la preoccupazione erano le bocche da sfamare, oggi è la manodopera che manca. Gli Stati asiatici più colpiti da un calo delle nascite che non conosce fine sono Corea del Sud, Giappone e Taiwan.
Andando con ordine, la popolazione della Corea del Sud ha iniziato a diminuire nel 2020, e nel 2022 il tasso di fecondità è sceso al minimo storico di 0,78, tra i più bassi al mondo, fra le conseguenze evidenti il fatto che il 40% delle case è abitata da una sola persona. Come scrive Chinafiles.com, in Giappone le nascite hanno cominciato a ridursi già a partire dagli anni ’70 e quella del Paese nipponico, escludendo il Principato di Monaco, è oggi la popolazione più anziana del pianeta, con 48,7 anni di età media e un indice di fecondità pari a 1,3 figli per donna, molto al di sotto della “soglia di sostituzione” (2,1 figli per donna) ma comunque superiore rispetto ai valori dei vicini di casa Corea del Sud e di Taiwan (0,98 nel 2021).
Ad oggi il tasso di fertilità medio giapponese è ancora più alto di quello italiano (1,24), con l’enorme differenza dell’immigrazione che riduce fortemente gli effetti del gelo demografico nella penisola. Nel 2022 la popolazione giapponese è diminuita per il dodicesimo anno consecutivo e sono nati meno di 800mila bambini, una quota che il Giappone non pensava di raggiungere prima del 2030. Allo stesso tempo Il Giappone ha uno dei tassi di natalità più bassi del mondo, nonché una delle più alte aspettative di vita: nel 2020, quasi un giapponese su 1.500 aveva 100 anni o più. Questo ha comportato un aumento della popolazione anziana, una riduzione della forza lavoro e non abbastanza giovani per sostenere la curva demografica.
Come è cambiata la politica dei Paesi asiatici sulla natalità
La situazione demografica di questi Stati si è stravolta in poco più di mezzo secolo: circa sessant’anni fa, riporta ancora Chinafiles.com, in Corea del Sud veniva introdotto un programma nazionale di pianificazione familiare: il tasso di fecondità medio sfiorava i sei figli per donna, specialmente nelle zone rurali, e si temeva che le risorse non sarebbero bastate per tutta la popolazione. Si distribuivano preservativi, pillole contraccettive, e soprattutto si incentivavano le donne ad abortire.
Forse, si decise troppo tardi di abbandonare il programma di pianificazione familiare. Infatti, negli anni ’90, periodo in cui arrivò lo stop al programma, il tasso di fecondità del Paese era sceso sotto la soglia di sostituzione di 2,1 figli per donna. Da lì è iniziato un lento ma costante inverno demografico, che però non è imputabile solo alle politiche anti-natalità.
Il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol ha dichiarato che tra il 2006 e il 2022 la Corea del Sud ha speso in politiche di natalità l’equivalente di oltre 200 miliardi di dollari. Soprattutto dagli anni Duemila anche il Giappone ha provato a emulare le politiche pro-natalità e più di recente lo ha fatto anche Taiwan. Nessuno dei tre Paesi, tuttavia, ha raggiunto risultati considerevoli.
Nonostante gli scarsi risultati, gli Stati asiatici vogliono continuare il loro percorso di incentivo alla natalità, aumentando gli investimenti. Per esempio, il governo giapponese ha annunciato di investire oltre 20 miliardi di euro all’anno per l’assistenza all’infanzia e di recente il primo ministro Fumio Kishida ha dichiarato: “La popolazione giovanile inizierà a diminuire drasticamente nel 2030. Il tempo che abbiamo fino ad allora rappresenta la nostra ultima possibilità per invertire la tendenza alla diminuzione delle nascite”. Anche in questi Stati, il calo demografico di oggi è figlio delle politiche di ieri, e la demografia di questi Paesi è vittima del cosiddetto effetto struttura, ovvero la diminuzione progressiva delle donne in età fertile, che costituisce la causa più profonda della denatalità anche per il nostro Paese.
Le ragioni economiche e socio-culturali
Un vecchio adagio recita “tutto il mondo è Paese”, la demografia non fa eccezione. Seppure dall’altra parte del globo, anche per questi tre Stati asiatici le ragioni dell’inverno demografico sono essenzialmente economiche e socio-culturali. Sotto il primo aspetto, il boom economico seguito alla seconda guerra mondiale aveva prima portato con sé un boom demografico, prima di sgonfiarsi negli ultimi decenni del Novecento. Poi, proprio come in Italia, è arrivato un mix letale per la crescita della popolazione: inflazione, stagnazione degli stipendi e precarietà del mercato del lavoro hanno stravolto in pochi decenni le prospettive di consumo e di vita della gente.
Sotto il secondo aspetto, è interessante notare come negli anni sia aumentata notevolmente la possibilità di accedere all’istruzione per le donne, che sono gradualmente entrate nel mondo del lavoro conquistando una libertà sempre maggiore. In Corea del Sud, secondo i dati della Banca Mondiale, la percentuale di ragazze che ha frequentato l’università dopo la scuola superiore è passata dal 3% del 1971 al 93% del 2020! Questo stravolgimento ha interessato anche Giappone e Taiwan travolgendo la concezione tradizionale per cui le donne dovevano dedicarsi esclusivamente alla casa e alla famiglia.
La maggiore indipendenza delle donne, che tipicamente ritroviamo nello sviluppo delle società, è stato così impattante da guadagnarsi un nome che in Corea del Sud è “bihon”, ovvero persona volontariamente celibe o nubile. Come sottolinea il sito specializzato sulle questioni asiatiche, a questo bisogna aggiungere la cultura del “super-lavoro” che rende difficlmente conciliabili famiglia e occupazione. I tassi di occupazione degli over 65 in Corea del Sud e Giappone sono i due più alti del mondo: la pensione non basta più e chi può “lavora per tutta la vita”.
Sembra paradossale come spostandosi più all’interno nello stesso continente, si rilevi il caso demografico del Kazakistan, dove la maternità è considerata "una vocazione".
Le conseguenze dell’inverno demografico
Il calo della popolazione sta avendo conseguenze preoccupanti in Asia. Le aree rurali si spopolano, mentre i residenti delle capitali Tokyo, Seul e Taipei aumentano. In questo modo si crea il circolo vizioso che spesso accompagna la crisi demografica in questi decenni: l’elevata concentrazione di persone nelle metropoli alimenta competizione e disuguaglianze, aumentano le ore lavorate, aumenta lo stress dei cittadini e aumenta l’inflazione. Nel frattempo, nei piccoli centri sempre più anziani muoiono soli dopo aver vissuto gli anni della pensione al di sotto della soglia di povertà.
Il calo della popolazione investe anche gli eserciti, che vedono ridotto il bacino degli arruolabili. Per spingere verso il rinnovamento dell’esercito giapponese, il premier Kishida ha promesso un’ingente espansione dell’arsenale militare entro il 2027, mentre quello di Seul è già uno degli eserciti più tecnologicamente avanzati al mondo, utilizzando la robotica per compensare la mancanza di soldati. Si tratta di un aspetto imprescindibile per Taipei, sempre più minacciata dalla Cina di Xi Jinping.
Gli Stati continueranno a investire per incentivare natalità, ma potrebbe non bastare. Anche per Giappone, Taiwan e Corea del Sud gran parte del futuro demografico dipenderà dall’aprire le porte all’immigrazione.
1 anno fa
Autore
Luca Morazzano

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