Cosa conta quando si scrive?
Per il lettore conta solo l'evasione in un altrove o condividere drammi esistenziali e porsi domande?
Cosa conta quando si scrive?
Diremmo, contano solo le ore che riesci a far trascorrere a un lettore, isolandolo, emozionandolo. Quindi, conta solo l’intrattenimento? Si scrive solo per far evadere il lettore dalla realtà, regalandogli un viaggio in un altrove? O abbiamo l’obbligo di educarlo, insegnargli qualcosa, spingerlo a riflettere o a renderlo partecipe di un dramma?
Facciamo un esempio, chiedendo soccorso a lunghi racconti fatti di immagini. Quante volte abbiamo visto film seriali come ‘Vacanze di Natale’ e cinepanettoni estivi affini? Tante. Ci hanno anche divertito, abbiamo riso in modo complice e grasso. Certo, li abbiamo dimenticati appena scorrevano i titoli di coda. Non perché fossero modesti o mediocri ma perché seriali, ripetitivi all’ossessione nella loro ciclicità. E quante volte abbiamo visto, che so, ‘C’era una volta in America’? Tante. Fino ad essere tacciati di idolatria. Eppure quel film dura 4 ore, mica uno scherzo. È impegnativo, ti costringe ad essere attento nello spiegamento della trama e delle azioni che si allungano nel corso del tempo. Vabbè, direte, sono esempi cinematografici. Okay, allora vi pongo il parallelo tra uno spassosissimo ‘Le solite sospette’ di John Niven o un sempreverde giallo d’evasione come ‘Assassinio sul Nilo’ di Agatha Christie rispetto a un classico come ‘Lo straniero’ di Albert Camus o un ‘77’ di Guillermo Saccomanno. Con i film sono andato sul sicuro: una storia da cinepattone, anche per sbaglio, l’avrete vista come sarete rimasti abbagliati dalla bellezza del capolavoro di Sergio Leone. Con i romanzi non sono proprio certo. Comunque, prima delle scene che scorrono alla base c’è un soggetto, una scaletta, una sceneggiatura, insomma c’è creatività che nasce dalla scrittura, prima di esplodere in una pellicola. Allora? Torniamo a noi. È importante solo creare per far evadere (vale anche per un romanzo fantasy non solo per una storia comica), o è fondamentale scrivere un romanzo che lanci qualche messaggio sociale, che porti alla riflessione, che ci imponga di fermarci e porci qualche domanda? E da qui nasce la condivisione, grazie al ruolo 'educativo', di divulgatore dello scrittore.
Qualcuno potrebbe rispondere: scriviamo rispetto ai desiderata del pubblico, esaudendo la sua voglia di evasione dal reale, andando incontro alla brama catartica. D’accordo, però non si può rincorrere il pubblico, il gregge ha sempre necessità di una guida, altrimenti si degenera come una certa politica che parte dalla pancia della gente per disegnare obiettivi istituzionali. Resto dell’opinione che la narrativa presupponga una mission dello scrittore, senza scomodare papà Manzoni e Gramsci. E così alzare l’asticella dei topoi, dell’architettura narrativa, della condivisione empatica e della bellezza estetica dovrebbero essere alcuni degli obiettivi da raggiungere. Insomma, vestendo di dignità romanzi di cultura pop. Non dimenticando il divertissement. Perché, come nella vita, il lettore nell’altrove letterario in cui ci ostiniamo a coinvolgerlo per sedurlo deve emozionarsi, che non significa solo commuoversi ma anche (d’accordo) farlo ridere. Ci vuole equilibrio. Perché, come diceva Protagora, la virtù sta sempre nel mezzo, tra due estremi che sono ugualmente da evitare, tendendo così alla moderazione, cioè all’equilibrio, evitando gli eccessi. Quindi, sì, romanzi che ci pongano quesiti esistenziali o urlare circa il rispetto di alcuni diritti fondamentali ma lasciamo tra le righe lo spazio anche a una sana risata con derive da pochade. Come accade nella vita, dove risa e pianto si alternano. Dove si crede che Eros e Tanatos siano in antitesi quando, invece, sono un Giano bifronte.
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