Quell'elogio dell'orizzonte che ti spinge a guardare oltre
Il monumento di Eduardo Chilida sul colle di Gijón è uno dei simboli della città asturiana
È un orizzonte senza perimetro. E senza veli. Come di quelli autentici. Gli orizzonti con la foschia o con una terra lontana che si scorge hanno sempre un limite. Quello di non farci sognare. Di non scavalcare quella linea che significa ignoto, destino. Però quest’orizzonte qui non è un finis terrae, ha i suoi bracci laterali che avvolgono il punto d’osservazione, poi presto ti spingono a guardare solo dritto, davanti a te, perché il futuro è lì.
Il monumiento de l’elogio del horizonte spunta solido nel suo blocco unico di cemento. Può sembrare un’opera incompiuta, di quelle che siamo abituati a fissare con spirito indolente quando un caseggiato ha appendici non terminate. Non è così. Te ne accorgi subito. Quest’architettura emerge dalla collinetta di Santa Catalina, una volta punto di difesa della batteria armata di Gijón. Oggi, invece, la sommità di questa città asturiana serve a far sognare.
Il monumento ti fa suo, ti avvolge fisicamente, ti penetra nell’anima, è quasi rassicurante su un orizzonte che rassicurante non è mai, non è affatto fermo come il cemento armato di cui è forma e contenuto. Non hai mai terre da scrutare. È ignoto. C’è un silenzio irreale. Metafisico. Il suono dei gabbiani è uno sfregio naturale in quel silenzio di mare, di oceano, di acqua, un peschereccio di tanto in tanto lambisce stancamente l’ampia zona del porto industriale. E poi c’è lui. Il rumore del vento qui è dolcissimo, ti culla, ti accarezza, non è violento eppure siamo accovacciati su un promontorio. Forse siamo stati fortunati, il clima qui è mite, le giornate sono soleggiate e fresche, ma soprattutto sono lunghe, coi lampioni che si accendono alle 22.15. Che meraviglia.
Eppure ero stato colto dalla frenesia del turista. Altro che viaggiatore. Mi ero informato come un viaggiatore consapevole: certo a Gijón vai per la Semana Negra, il festival di letteratura nera e arte varia, simbolo di identità popolare qui nelle Asturie, ma studi anche le tappe turistiche, si avrà il tempo di sbirciare quei luoghi che sono cari agli asturiani. E poi il simbolo di questa 36ma edizione del festival della novela negra è proprio il monumento che ti spinge a guardare oltre, una parte del cemento originale è sostituita da una pistola conficcata a terra. Così si va, ci si ferma in un bar, si beve un espresso (Italia, mi manchi!), si chiacchiera, una ma anche due battute perché l’empatia resta la prima relazione umana, si osservano manie quotidiane quanto basta per non sprofondare nella monotonia, così seppure in ritardo (ma da cosa poi?) arrivi al monumento di Eduardo Chilida, scatti le foto come un turista qualsiasi, magari anche più scrupoloso perché abbracci ogni angolatura, ti guardi attorno, hai catturato la preda di cemento armato e ora si può anche andare via.
No, c’è qualcosa che non va. Ti fermi un momento. Guardi l’orizzonte. La scia di gente che va e viene, chi caracolla col cane, chi si tiene mano nella mano, chi perde le ore prima del pranzo, allora torni indietro. Ti vanti di essere un viaggiatore e non un turista e poi ti comporti come un turista mordi e fuggi. Fermati, un attimo. Eppure ti sei vestito come un viaggiatore: camicia granata con un foro sull’ascella destra e sufficientemente lisa su quella mancina, il classico indumento da utilizzare per una giornata e poi cestinare per chi è abituato ai viaggi lunghi e sa che adesso quello che conta non è la forma, sotto leggero bermuda a quadretti di diverse declinazioni di marrone, ai piedi sneakers comode anche se alla moda. E allora torno sui miei passi.
E mi siedo. Proprio al centro del monumento, fronte oceano. Del resto, il monumento è un cerchio, un cerchio spezzato, come se il destino di un uomo non è solo un punto fermo ma l’ignoto dove trovare questo punto che raccorda la sua vita. Non è un caso che sia una porta che si lancia verso l’oceano, tendendosi sull’orizzonte che per definizione è irraggiungibile, anzi appena raggiungi il punto dell’orizzonte che ti sei prefissato lui stesso ti spinge a raggiungere un altro punto, come se l’orizzonte fosse davvero una patria senza bandiere, senza confini, senza discriminazioni.
Osservo ma soprattutto ascolto il silenzio fuori e dentro di me. Scruto l’orizzonte, penetro il nulla, un po’ come fossi il Giovanni Drogo di Buzzati, ma l’orizzonte lo ascolto, non chiedo che si manifesti qualcosa. Sbuffo piano e penso anche ai gendarmi spagnoli che se ne stavano lì piazzati ad attendere un nemico invisibile, provenire dalle acque del golfo di Biscaglia, da quelle del mar Celtico, dalle acque infinite dell'oceano Atlantico. Qualche turista mi scambierà anche per un orpello del monumento, stando lì da chissà quanti minuti, scorrono innamorati, giovani, coppie salde col cane con lui vero protagonista nelle foto di rito, ma non me ne vado. Respiro anche i loro sentimenti. Sono buoni. È un pellegrinaggio, un turismo culturale che mi diverte, profuma di anima con forme e colori che riempiono gli occhi di chi guarda. Divento io stesso monumento, divento io elogio del mio silenzio, divento io mio orizzonte. Non c’è una targa che ricorda l’artista. So bene chi è. Mi sono informato. E se c’è la targa io non l’ho vista. Ringrazio Eduardo Chilida. E ringrazio il potere dell’orizzonte.
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